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L’impossibilità della neutralità

Arseny Zhilyaev25/07/24 16:08574
Arseny Zhilyaev, Lingua Madre, installation view della mostra, 2024. Courtesy l’artista e C+N
Arseny Zhilyaev, Lingua Madre, installation view della mostra, 2024. Courtesy l’artista e C+N

Marco Scotini: Nella lingua italiana ”madrelingua” o “lingua materna” sono due termini composti che potrebbero sembrare intercambiabili.

Eppure, non è così: le due espressioni non hanno lo stesso significato. Nel primo caso si fa riferimento alla lingua del paese d’origine, alla lingua nativa di una persona. Si tratta sempre di una lingua ufficiale, una lingua nazionale: un codice comunicativo che implica anche un rapporto con lo Stato d’origine e che allude alla condizione astratta di cittadinanza. Qualcosa che, come tale, crea una differenza tra noi e l’altro da noi. Lingua materna, invece, ha a che fare con una comunicazione affettiva, corporea, più legata alla facoltà di linguaggio come tale che ad un cumulo di enunciati, ad un vocabolario di termini predefinito. Più voce che parola, dunque.

Lingua Madre è pure il titolo di una serie di tue opere recenti composta di bandiere ricamate (che generalmente dovrebbero essere simbolo dell’appartenenza nazionale) ma è anche l’espressione che dà il titolo all’intera esposizione. Qui, un collage di diverse entità (tele, bandiere, pagine di giornali, testi) è accomunato dal colore bianco e da una serie di storie legate alla realtà sovietica e post-sovietica. Ricordo un tuo testo di qualche anno fa dal titolo Cries and Whispers or a Short History of Voice in Russian Contemporary Art [Grida e sussurri o una breve storia della voce nell’arte contemporanea russa]. Vista la drammatica e ingiustificabile situazione politica russa del momento, in che senso, la mostra attuale prende il titolo di Lingua Madre?


Arseny Zhilyaev: Forse la serie con le bandiere ha per me connotazioni emotive più intense. Ho iniziato a lavorarci nel 2022 e il messaggio generale potrebbe essere riassunto in due affermazioni. In primo luogo, non esistono “buoni russi”. Questa frase è nata originariamente in seno all’opposizione liberale russa in Europa, ma è stata immediatamente criticata sia nel contesto russo che in Ucraina. Tutti noi legati al contesto dell’aggressore e alla sua cultura siamo responsabili di ciò che sta accadendo. Questo è il risultato delle nostre debolezze, compromessi, mancanze. Anche all’interno della bandiera bianca, che suggerisce simbolicamente la rinuncia alla guerra, cioè il “ci arrendiamo”, rimane un residuo inestirpabile di violenza, oscenità e tracce di crimini di guerra, anche se lo vediamo appena, a livello più elementare, forse a livello del linguaggio e della comunicazione che si ha con le persone a noi più vicine. La maggior parte delle intercettazioni di conversazioni telefoniche di soldati russi sono conversazioni con mogli e madri. La frase usata in questa serie può essere tradotta come “anche loro sono persone, parlano russo”. Da un lato ci sembra di sentire critiche alla guerra, dall’altro si scopre che chi non parla russo non è umano. Quest’ultimo livello, più nascosto, è molto importante, è quello che nella tradizione rivoluzionaria russa veniva criticato come “grande sciovinismo russo”. Ma, nonostante tutte le critiche, questa situazione non è scomparsa. L’URSS era un impero e la Russia rimane tale.

Il secondo punto che mi sta a cuore, come persona che vive in Italia da più di cinque anni e che tiene una mostra a Milano su un territorio sicuro, è la problematicità del territorio stesso dell’arte contemporanea, la sua distanza dalla tragedia, la sua neutralità. Nel caso di Lingua Madre, il fatto che le parole dell’aggressore siano inscritte nel tessuto monocromo indica l’impossibilità fondamentale della neutralità e del giudizio a distanza. Almeno per ora. Vediamo chiaramente che l’eredità modernista elitaria (“highbrow”) è “irta” di tragedie e crimini. D’altra parte, nel contesto russo si parla molto della necessità di ripensare la posizione di Theodor W. Adorno, filosofo tedesco che apparteneva al contesto dell’aggressore e che cercò di capire cosa potesse essere l’arte dopo la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale e del Nazismo. Nell’epigrafe poetica della mostra faccio riferimento al libro del filosofo Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, che riassumeva l’esperienza dell’esilio negli Stati Uniti. In esso vedo il dilemma che devono affrontare le persone con una mentalità pacifista legate al contesto russo. Sentiamo la nostra responsabilità e il nostro coinvolgimento nell’orrore che sta accadendo e allo stesso tempo comprendiamo che il contesto occidentale (nel senso lato del termine), proprio come gli USA per Adorno, si rivela impreparato alle sfide attuali, forse esso stesso colpito dal virus che viene sempre più evocato in riferimento alle moderne mutazioni del fascismo.

MS: Una condizione di indiscernibilità tra visibilità e invisibilità è il filo conduttore che lega tutti i pezzi in mostra. Ti servi di un bianco che annega su un altro bianco come espressione per denunciare una impossibile condizione di neutralità di fronte alla situazione di guerra attuale.

Il bianco come colore della resa, dell’assenza e del dolore viene insinuato al suo interno da un altro bianco che nasconde e rivela, allo stesso tempo. Le sette bandiere in esposizione sono ricamate ciascuna con una parola che nella somma complessiva di tutte recita “anche loro sono persone, parlano russo”. Il bianco sopra le pagine dei quotidiani lascia scomparire e apparire i titoli che accompagnano quotidianamente le operazioni di guerra in Ucraina.

Ma è anche il segno che la centralità dell’evento bellico, nella comunicazione mainstream, si sta dileguando sopraffatta dall’altrettanto drammatico conflitto israelo-palestinese.

Se però cerchiamo di passare in rassegna gli ultimi anni della tua produzione vediamo che la copertura bianca che riveste molte delle tue opere non data solo a partire dal fatidico 24 febbraio 2022 ma è presente anche nel 2020. Penso al tuo solo show The Monotony of the Pattern Recognizer [La monotonia del riconoscimento di pattern] al Moscow Museum of Modern Art, in cui viene citata una parte della mostra miliare 0,10 del 1915 nell’attuale San Pietroburgo, con il Quadrato nero posto sull’angolo. Qui una vernice bianca vela la superficie del capolavoro del Suprematismo, assieme alle altre tele. Come spieghi l’introduzione di questa velatura nel tuo lavoro?

Arseny Zhilyaev, Senza titolo o Libido muro, carbone, dimensioni variabili, 2024. Courtesy
Arseny Zhilyaev, Senza titolo o Libido muro, carbone, dimensioni variabili, 2024. Courtesy

AZ: Negli ultimi anni ho lavorato in modo critico con l’eredità del modernismo, affrontandola direttamente, creando e interagendo con il concetto dei monocromi bianchi. Molto spesso, questa operazione è costruita progettando la mostra come mezzo, una metodologia che mi consente di speculare sull’istituzione museale e sul contesto storico generale. Cioè, il monocromo bianco qui svolge semplicemente il ruolo di una “unità” vuota, una sorta di shifter o “indicatore dell’enunciazione”, che svolge il suo ruolo nel dramma, ma non ha alcun significato indipendente, riferendosi alla tradizione del sublime e all’autonomia dell’opera d’arte.

È importante notare anche che per Kazimir Malevich il suo Bianco su bianco, creato nel 1918, significava il passaggio all’azione. In uno dei suoi opuscoli dell’epoca dà la seguente interpretazione: «Il quadrato bianco, oltre al movimento puramente economico della forma dell’intera nuova costruzione del mondo bianco, è anche un impulso per la giustificazione della costruzione del mondo come “azione pura”, come autoconoscenza di sé nella perfezione puramente utilitaristica del “tutto-uomo”, ha ricevuto un altro significato: il nero come segno di economia, il rosso come segnale di rivoluzione e il bianco come pura azione». Nel caso di Malevich, ciò significava una transizione verso l’attività pedagogica e, in un certo senso, la costruzione della vita. Sì, differiva dai produttivisti e dai costruttivisti di orientamento marxista. Ma l’anarchico Malevich propose la sua versione, più legata alla costruzione di un sistema artistico individuale, che non escludeva l’influenza sul design, sull’architettura e sul “nuovo modo di vivere” in generale. Anche nelle installazioni interattive e nei progetti che realizzo con l’utilizzo di giochi di ruolo, mi muovo verso l’azione. A volte in senso letterale, ossia quando ri-rappresentiamo qualcosa su una tela bianca, come nel progetto Nei giorni di guerra. A proposito, nella sua versione zagabrese ho utilizzato un lavoro di Malevich, questa volta quasi sconosciuto e conservato solo nei ricordi dei suoi studenti. Il fatto è che l’artista fece un passo ulteriore dopo Bianco su bianco esponendo una sala con barelle di legno vuote. Nessuno dei suoi contemporanei capì il significato di questo gesto e nessuna documentazione è giunta a noi. Nel 2023 a Zagabria ho realizzato strutture espositive con barelle sulle quali abbiamo esposto una selezione di opere della collezione del Museo d’Arte Contemporanea, realizzate durante i conflitti militari in cui è stata coinvolta la Croazia. Nella mostra di Milano non ci sono riferimenti di questo tipo, ma mi piace interpretare i pali delle bandiere esposti nella mostra di Milano come l’equivalente della barella di Malevich, che diventa nuovamente una struttura per l’espressione artistica.

Arseny Zhilyaev, Dietro la nebbia di guerra c’è sempre dolore, riviste e giornali trovati,
Arseny Zhilyaev, Dietro la nebbia di guerra c’è sempre dolore, riviste e giornali trovati,

D’altronde il bianco per me ormai significa il colore dell’impossibilità di espressione. Blocchi linguistici. L’incapacità di comprendere il dolore attraverso i media, a distanza, soprattutto se si parla di una persona associata al contesto dell’aggressore. Tutti questi significati sono stati espressi per me nell’opera in progress Dietro la nebbia della guerra c’è sempre dolore, per cui ho dipinto e ancora continuo a dipingere su quotidiani e riviste, a partire dal 24 febbraio 2022. A Zagabria, durante la preparazione della mostra, ho conosciuto le opere che Mladen Stilinović ha realizzato durante la guerra in Jugoslavia. In queste opere l’artista ha utilizzato molto il bianco, realizzando anche dei monocromi, affermando che questo è il colore della sofferenza1. «Il bianco è il colore del silenzio, molto intimo, e il dolore è una cosa intima» diceva. Questo sentire mi è molto vicino.

Allo stesso tempo, la riduzione del bianco, così come quella concettualista in generale, la rinuncia a se stessi — cose che mi sono molto comprensibili e vicine — devono essere interpretate in modo molto delicato. Il rifiuto e lo sfruttamento della bianchezza avvengono molto spesso da parte di uomini bianchi vincolati al “contesto occidentale”. Nel suo nuovo libro su arte e proprietà, David Joselit mette a confronto i gesti di rifiuto di due importanti artisti concettuali, Lawrence Weiner e Adrian Piper. Solo in un caso il rifiuto è centrato sulla persona dell’artista, che ha tutti i privilegi, mentre nell’altro viene destabilizzato attraverso una persona che ne è privata. Sono un uomo nato in URSS e ho vissuto gran parte della mia vita in Russia. Il bianco per me ha una connotazione ambigua; capisco che ci siano aspetti ineludibili che lo rendono, tra l’altro, il colore di una posizione privilegiata. Sto cercando di problematizzare la cosa dall’interno.


MS: Riguardo alla drammatica situazione sociopolitica attuale in cui Vladimir Putin si è elevato a genio di un nuovo impero del male, facendo eco all’URSS degli anni Trenta, come rileggi ora il tuo progetto The Museum of Russian History in cui l’originaria figura scialba e incolore del KGB, designato da Boris Yeltsin come suo successore, sarebbe finita per diventare un artista di performance perfetto nel paesaggio mediatico internazionale? Già Boris Groys aveva fatto di Joseph Stalin il grande artista dell’opera d’arte totale. Dunque, la storia si ripete. Come leggi l’ultima incarnazione di Putin e quale Museo potrebbe ancora rappresentarlo?


AZ: Questa è una bella domanda e ci ho già pensato, ne ho persino discusso con “l’eterno temporale” Boris Groys in un dialogo su Nowhere Romantic Automatism2… In effetti, ora sembra che la Russia abbia oltrepassato il confine e si sia trasformata da autocrazia in uno stato totalitario. Non ci sono ancora repressioni di massa. Ma forse per la società dell’informazione bastano poche migliaia di frasi per creare un effetto assordante di paura. D’altro canto, sembra che l’infrastruttura per la repressione di massa sia pronta e che l’apparato di repressione semplicemente non possa rimanere inattivo. Vorrei sottolineare che, in media, le persone raramente ricevono meno di 7 anni per aver criticato le autorità e fatto dichiarazioni contro la guerra. Sono state eseguite molte condanne che vanno da 20 anni o più per questo. Il regime di Putin sta ripetendo la storia dei Gulag di Stalin a un ritmo accelerato; negli anni Trenta ci volle più tempo per costruirli…


MS: Queste continue forme di riemersione della sovranità nella storia russa sono messe perfettamente in luce dal tuo lavoro, Nei giorni di guerra, presente in mostra a Milano dopo essere stato esposto al MSU di Zagabria. Il tema dell’esposizione o del museo come medium, che accompagna molta parte della tua attività, è presente anche in Lingua Madre con una sala dedicata al pittore del realismo socialista Geliy Korzhev (1925–2012). Il soldato-artista al centro del suo quadro finisce per essere una sorta di Penelope che la notte disfa la tessitura fatta durante il giorno dove ad essere in gioco è il ritratto di Stalin. In sostanza Stalin compare e scompare all’interno di questo quadro così come il ricamo bianco dello stesso ritratto appare e scompare nel bianco della tela del tuo lavoro di oggi. Vuoi parlarci di questa tua opera?

Arseny Zhilyaev, Nei giorni di guerra, installazione interattiva, tele, ricamo a macchina,
Arseny Zhilyaev, Nei giorni di guerra, installazione interattiva, tele, ricamo a macchina,

AZ: Questo progetto si basa sull’omonima straordinaria opera Nei giorni di guerra di Geliy Korzhev, creata un anno dopo la morte di Stalin. La tela raffigura un soldato dell’Armata Rossa che guarda nel vuoto di una tela bianca. L’opera fece scalpore rendendo l’artista una stella dell’arte ufficiale sovietica — il Realismo Socialista — e della sua ala liberale chiamata Stile severo. Ma negli anni 2000 apparve uno schizzo dell’opera, dove, invece di una tela vuota, un soldato meditava su un ritratto di Stalin. Non entrerò nei dettagli di questa storia, ma mi concentrerò sul progetto esposto alla C+N Gallery CANEPANERI. Questa è un’installazione interattiva composta da due quadri su cui il ritratto del leader totalitario dell’URSS è ricamato nelle maglie della tela, dietro la pittura. Gli spettatori sono invitati a trovarsi nei panni dell’artista dell’Armata Rossa, un fatto veramente problematico per molti, e, se lo desiderano, a rappresentare qualsiasi cosa sulla superficie dei quadri. Allo stesso tempo, il ritratto di Stalin rimane inscritto nel tessuto della tela, così come è inscritto nel tessuto del contesto russo. Anche se ricoperto di un colore monocromo, di moda negli anni Cinquanta, o in certi progetti contemporanei. Stalin rimane come un fantasma, costantemente sfollato ma pronto a ritornare continuamente al suo posto. Penso che questa sia una metafora molto triste per l’arte russa.


MS: The Museum of Proletarian Culture [Museo della cultura proletaria], The Museum of Russian History [Museo della storia russa], The Archive of the Future Museum of History [L’archivio del futuro museo della storia] sono progetti artistici molto importanti che hanno costellato la tua attività dal suo inizio. Assumere il dispositivo del museo come spazio simbolico ed espressivo della tua ricerca su cosa ti ha permesso di fare maggiormente luce? A cosa si lega questa costante presenza del museo? Si relaziona ad una idea di tempo? Viste le tue esplorazioni pionieristiche su Nikolai Fedorov e il cosmismo si ha l’impressione che la temporalità sia qualcosa di imprescindibile da questo tuo approccio. The Museum of Museums [Museo dei musei] di Venezia è la sua ultima incarnazione?


AZ: Definisco The Museum of Museums come un’istituzione inesistente in modo simile all’insieme matematico degli insiemi. E sono d’accordo che, probabilmente, in questa fase, questa modalità di esistenza spettrale tra il visibile e l’invisibile, esistente e inesistente rimarrà con me per molto tempo. Ho anche pensato che, visto che ora devo trascorrere la maggior parte del mio tempo a Venezia, è difficile pensare ad un posto migliore per The Museum of Museums.


MS: Tu sei nato nel 1984 e appartieni alla generazione che Masha Gessen ha raccolto e raccontato nel suo libro Il futuro è storia. Cioè, quelle persone per cui la fine dell’Urss è stata il primo ricordo formativo ma che poi hanno vissuto le loro intere vite adulte in una Russia guidata da Putin. Come uno dei personaggi del libro, anche tu hai fatto parte della scena attivista e ricordo la tua collaborazione con Ilya Budraitskis. Si tratta di una generazione che ha visto il declino e la resurrezione dell’homo sovieticus nel suo significato peggiorativo. È per questo motivo che hai deciso di inserire in mostra la citazione alterata del motto di Marx «La storia ripete se stessa due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa»? Nella tua opera neon, a forma circolare, tale citazione risulta non più una ripetizione differente ma la ripetizione dell’identico: «La prima volta come tragedia, la seconda volta come tragedia».

Arseny Zhilyaev, Senza titolo o Wiedermal als Tragödie, neon, diametro 180 cm, 2024.
Arseny Zhilyaev, Senza titolo o Wiedermal als Tragödie, neon, diametro 180 cm, 2024.

AZ: Interpretazione interessante! Non ci avevo pensato. Forse hai ragione. Ma per me, per Budraitskis e per altri esponenti della sinistra democraticamente orientata, l’URSS non è stato un fenomeno inequivocabilmente negativo. Anche dal punto di vista artistico ho lavorato molto con gli anni Venti e con le iniziative progressiste del progetto sovietico o dell’underground degli anni Settanta. Ma oggi è difficile parlarne. Putin evoca gli aspetti più oscuri del passato dell’URSS e della Russia. Nonostante il fatto che per gli intellettuali di sinistra non fosse un segreto che il nuovo fascismo si sarebbe travestito da antifascismo. Tuttavia, quando la teoria diventa realtà è sempre una sorpresa.

Recentemente ho discusso con un mio collega russo delle specificità della nostra generazione. Ha condiviso un’idea che era inaspettata per me. Secondo lui siamo stati fortunati più volte. In realtà siamo figli del periodo della liberalizzazione sovietica (come veniva chiamata la perestroika negli anni Ottanta), nati da genitori la cui infanzia, a sua volta, è avvenuta durante il disgelo e il periodo successivo alla morte di Stalin. Il nostro periodo scolastico si è svolto negli anni Novanta, un periodo molto difficile di terapia d’urto economica e di capitalismo selvaggio. Tuttavia in termini di libertà, questi potrebbero essere stati gli anni più liberi dell’intera area da secoli. Gli inizi degli anni 2000, ossia prima dell’invasione della Georgia nel 2008, e delle proteste dei primi anni della decade seguente, in cui sono stato coinvolto come attivista, sono ancora chiamati “tempi vegetariani”3. Non so cosa ci aspetta, ma nel contesto russo sembra che abbiamo vissuto un’esperienza unica. Un’esperienza di libertà unica, così insolita per la stragrande maggioranza dei nostri concittadini… Il 5 marzo, data dell’apertura della mostra Lingua Madre, coincide con la data della morte di Stalin. Che questo sia un buon segno. Adesso faccio fatica a crederci ma le leggi del genere dialogico mi impongono di concludere con una nota più ottimistica. Se è così, lasciamo che la nostra esperienza ci ricordi che, anche in Russia, un mondo (diverso) e la pace sono possibili.



1. Stipančić, Branka, Does the World Seek a White, Total, Lasting Absence? , in Mladen Stilinović. White Absence, New Zealand, The Gus Fisher Gallery, University of Auckland, 2001.

2. Zhilyaev, Arseny, Nowhere Romantic Automatism, in “Syg.ma”, 19 marzo 2023, https://syg.ma/@arsienii-zhiliaiev/nowhere-romantic-automatism

3. Il termine “tempo vegetariano” è usato nel gergo politico russo per descrivere il periodo passato sotto la presidenza di Putin nel 2000 e anche all’inizio del 2010, quando il livello e la portata delle repressioni erano relativamente limitati.

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